Privo di titolo (1)
di cristinadellamore
Come promesso, ecco la prima parte del racconto incompiuto di un week end fetish nel corso del quale la nostra amica Cristina ha ricoperto il ruolo di Dom e la sua lei – Stella – quello di sub: se ricordate il lungo post “Una breve vacanza”, quella volta fu il contrario.
Ce n’è per altri sei puntate: spero seguirete la nostra amica Cristina in questa nuova avventura.
Mario Siniscalchi
Ho ricevuto per due settimane una mail al giorno: sì, perché gli organizzatori hanno centellinato le informazioni per il nuovo week end fetish cui parteciperemo, lei e io; non posso fare a meno di pensare che l’altra volta queste mail arrivavano a lei, e lei faceva l’espressione impenetrabile dei giocatori di poker quando io chiedevo se c’erano novità. Potrei incazzarmi ma non sarebbe giusto, fa tutto parte del gioco, che è il più bel gioco del mondo. Ma cosa avete capito, non il fetish, il nostro amore. Quando è giunto il momento mi sono rivestita della dignità di mistress per ordinare a lei di preparare i bagagli: per me, buona parte di quello che abbiamo comprato a Parigi, più un vestito sin troppo elegante che ho scelto da sola e sul quale ho ancora dei dubbi – sì, senza i consigli che lei può darmi spesso e volentieri ripiombo nell’incertezza; per lei, invece, molto poco. Sì, perché una sottomessa non ha bisogno di vestiti, le basta un collare, non credete? E già dalla sera prima lei mi ha risposto “Signora, sì signora”, ogni volta che mi sono rivolta a lei: giusto, così si fa. Insomma, il nostro bagaglio per questo week end sta tutto in un piccolo trolley, alla fine; lei venerdì mattina mi accompagna in ufficio con la venerabile Ural che ormai comincia a perdere qualche colpo, mi verrà a prendere alle cinque del pomeriggio in punto e già in quell’occasione ci sarà una prima sorpresa per lei, che è tutta farina del mio sacco, per una cosa del genere non ho bisogno di essere telecomandata con una mail. Si, perché è il venerdì informale e sono uscita di casa in jeans, maglietta e giubbotto di pelle, per tacere delle sneakers vintage, e mi faccio trovare in camicetta di seta bianca, shorts aderenti di pelle nera e tacchi a spillo. Non c’è trucco e non c’è inganno, tutto merito di una borsetta capiente e della borsa del computer. Mi accomodo in macchina con un blando cenno di apprezzamento: le ha obbedito ed altro non poteva fare, e forse non si rende neanche conto di quanto sia bella con la camicia a scacchi di taglio maschile aperta sul seno impennato, che non è mortificato neanche dalla cintura di sicurezza e la corta gonna a portafoglio che scopre le cosce tornite fin quasi all’inguine. So che il tutto è completato dai mocassini leggeri portati senza calze.
Forse troppo leggeri, i mocassini, e non solo quelli. Qui è più fresco che in città, e mi spiego alcuni passaggi delle istruzioni che mi sono state fornite. Ci ho pensato per tutto il viaggio, durante il quale lei ha guidato con la consueta tranquilla perizia seguendo le indicazioni inserite nel navigatore, mentre io tenevo una mano possessiva poggiata molto in alto sulla coscia – acciaio ricoperto di seta – che sentivo fremere e contrarsi. Lei mi desidera come io desidero lei, lei mi ama come io amo lei, e queste deve bastarci per affrontare anche questa prova. La nostra destinazione è un enorme casale dall’aspetto molto rustico nel bel mezzo del niente, ovvero terra brulla a perdita d’occhio, come non immaginavo potesse esistere a poco meno di un’ora di strada da Roma, con filari di alberi che nascondono molto bene dei punti strategici della proprietà e che frequenteremo nei prossimi due giorni. La macchina condotta da lei nel buio fila via liscia perché la stradina privata che abbiamo imboccato, dopo aver percorso il raccordo anulare, la statale e la provinciale, è stretta ma asfaltata alla perfezione, e intanto non posso fare a meno di chiedermi, sia pure solo per un istante, quanto sia costato il nostro biglietto d’ingresso. Qui, cui accennavo prima, è uno spiazzo a malapena illuminato da piccole lampade poste a neanche mezzo metro dal suolo, proprio davanti all’ingresso principale del casale. Lei scende quasi di corsa, quasi di corsa gira intorno alla macchina e apre lo sportello dalla mia parte; fa anche un bell’inchino, profondo quanto basta per mettere in bella evidenza il solco tra i seni, a mio esclusivo beneficio. Per lo spettacolo che lei mi offre e per l’arietta frizzante che mi investe tutte le mie sporgenze diventano immediatamente più sensibili, i capezzoli si protendono contro il reggiseno leggero e la delicata cuspide della mia fichetta depilata preme improvvisamente contro le mutandine. Cominciamo bene: vedo forse un accenno di sorriso ironico sulle labbra di lei, mentre scendo dalla macchina e mi ergo sui miei tacchi da dieci centimetri? Il sorriso c’è, ma non è ironico: lei si raddrizza quasi sull’attenti, ed atteggia le labbra sottili ad un bacio prima di rispondere “Sì, mia signora” al mio ordine, chiudere lo sportello e prendere il nostro bagaglio. Senza voltarmi la precedo lungo i tre ampi e bassi gradini che conducono al portone, legno rinforzato da arrugginiti bulloni di ferro. Sento lo sguardo di lei su di me e me lo merito. Ho scelto di essere provocante al massimo, e rimpiango di non aver messo anche i collant neri a rete che infiammano lei per ragioni che ancora non mi sono spiegata; lei è legata a me più e meglio che con catena, collare e manette, come io sono legata a lei. Ho ancora un istante prima di aprire il portone, posso ancora tornare indietro. In questo istante mi dico che sì, lo facciamo, come lei ha esposto me ed il lato più bello e difficile del nostro amore io esporrò lei, e al diavolo la gelosia, perché il corpo di lei è un’opera d’arte che non si può nascondere al mondo, così come non si può nascondere il nostro amore, e voglio esibirlo e mostrarlo, proprio a cominciare da stasera. Tiro un profondo respiro e mi butto. Dietro la porta, proprio sulla soglia, impettito, un cameriere o forse il concierge, o magari il maggiordomo sembra un alto ufficiale nazista, tutto in nero, giacca, pantaloni, camicia e cravatta. Porta anche degli stivali neri e lucidi nei quali ha infilato i pantaloni, qualcosa che luccica sul bavero della giacca. Mi guarda e sbatte i tacchi, irrigidendosi sull’attenti, e rimane sull’attenti mentre passa, dietro di me, lei: mi chiedo cosa stia pensando, poi decido che ho già abbastanza problemi, questo fine settimana è frutto di una scelta che abbiamo fatto assieme, dobbiamo godercelo e farò tutto quello che posso perché vada tutto liscio.